Riflessioni contaminate sul migrare di ieri e di oggi

Per il terzo anno, venticinque studentesse e studenti dell’IIS Beretta (dal Liceo Moretti ma anche da ITIS e IPSIA) tra Gennaio e Maggio 2017 partecipano ad un Laboratorio Teatrale sui temi del migrare e delle nuove migrazioni.

L’attività  teatrale di questo anno scolastico è iniziata a dicembre con un laboratorio di Video creazione per la ideazione e costruzione dell’ambiente visivo funzionale all’azione scenica, che ha coinvolto un piccolo nucleo di studenti guidato da un Esperto in Scenotecnica/ Video.

Come tradizione,  il laboratorio condurrà  all’allestimento di uno Spettacolo e alla partecipazione al LAIV Action, il Festival delle Arti performative dal Vivo, presso il Te atro Elfo Puccini di Milano, a maggio 2017.

…E TUTTI SI PARTIVA

Anni ‘50 e ‘60 del secolo scorso

Quando, dopo la seconda guerra mondiale i flussi migratori ripresero, sospinti dalle difficoltà  economiche del paese, essi furono incoraggiati dalla classe dirigente “che vedeva nell’emigrazione un utile strumento per contenere il disagio sociale”.

La strategia di incoraggiare l’emigrazione aveva l’obiettivo di limitare i danni sociali dovuti all’avvio della ristrutturazione industriale, con il conseguente sacrificio di posti di lavoro: perdita di consenso e  rischi di sovvertimento sociale che ad essa erano legati.

A questo fine, vennero varate iniziative internazionali di accordi bilaterali con molti paesi europei e americani, a cominciare dalla Francia dalla Germania Federale Germania Federale e dall’Argentina.

Nel corso degli anni Cinquanta all’esodo all’estero si affiancò  il più imponente spostamento di popolazione della storia dell’Italia unita, consistente nel fenomeno concomitante dell’abbandono delle campagne e di fuga dal Meridione. Nei soli cinque anni compresi tra il 1958 e il 1963 oltre 900.000 persone si spostarono dal Mezzogiorno alle città del Settentrione.

Analoghi flussi migratori con spostamenti da Sud a Nord si riscontrano in quegli anni in Alta Valle Trompia: si constata una forte presenza di minatori sardi nelle miniere di Bovegno e Collio; la partenza per la vicina Svizzera di operai specializzati valtrumplini; l’abbandono dei borghi montani da parte di donne spesso giovanissime, per recarsi a servizio nelle città, col fenomeno delle “servette” .

Su questi tre fronti del movimento migratorio si costruirà quest’anno la  drammaturgia per il laboratorio e  lo spettacolo.

Il percorso di sound design   

Caratterizzazione del laboratorio del secondo anno sono le interviste a chi, negli anni a cavallo tra il secondo dopoguerra ed il boom economico degli anni 60, ha abbandonato il paese di montagna o di fondo valle per emigrare all’estero o in città  italiane più “ricche”, fortemente articolata da sound design rielaborati dagli studenti tramite incontri specialistici con il tecnico musicale – fonico Andrea Gentili.

...E TUTTI SI PARTIVA

A seguito degli effetti della crisi economica del 2007-2008, dalla fine del decennio ad oggi è ripartito un flusso consistente di espatri dall'Italia verso il nord Europa (in particolare la Germania, dove sono giunti, nel solo 2012, oltre 35.000 italiani) ma anche verso altri paesi come il Canada, l'Australia, gli Usa, i paesi sud-americani e asiatici. Intorno alle 78.000 persone secondo i dati AIRE del 2012.

Un fenomeno che, in vario modo, ha coinvolto anche la nostra Valle, che ha visto numerosi laureati o studenti emigrare, dopo esperienze di soggiorni scolastici all’estero, soprattutto in Europa ma anche in altre terre del mondo.

La nuova emigrazione, dunque, di laureati del territorio e studenti temporaneamente all’estero, diventa drammaturgia dell’ultimo anno del Progetto “… E tutti si partiva. Riflessioni contaminate sul migrare di ieri e di oggi”.

 L’idea del progetto "… E tutti si partiva. " è quella di scorrere-discorrere (mettere a confronto) la realtà di oggi e quella del passato.

Per quanto riguarda l'articolazione triennale del progetto, l'idea è stata quella di concentrarsi per ogni anno su un diverso aspetto del linguaggio teatrale, mantenendo il tema della ricerca storica .

Lo schema delle tre migrazioni, migrazione ottocentesca, novecentesca e attuale è stata supporto per le attività teatrali dei tre anni scolastici.

Il terzo anno ha avuto come linea guida uno sviluppo della ricerca legato alle arti visive, con la guida di uno specialista in scenotecnica/video.

pdf icon Locandina E tutti si partiva

 

27 gennaio. Un ricordo di liberazione, un ricordo di dolore.
27 gennaio 1945, nel campo di concentramento di Auschwitz si respira libertà  e speranza, ma gli occhi dei pochi sopravvissuti sono vuoti, un vuoto ricolmo di rabbia, dolore, rancore, sofferenza.

Sembrava un giorno come tanti, quel 27 gennaio 1945, l’ennesimo giorno di lavoro, di fatica, di morte, l’ennesimo tentativo di arrivare alla sera, l’ennesimo tentativo di non ascoltare l’assordante voce della coscienza che ti chiede urlando e piangendo se vale davvero la pena scegliere ogni giorno la sopravvivenza invece di una morte liberatoria. È  l’unico pensiero della giornata; il resto è  vuoto.
Del resto, un numero non dovrebbe pensare, dovrebbe solo lavorare, il lavoro rende liberi, Arbeit Macht Frei. Il massimo che potrebbe fare un numero è morire: di sete, di fame, di stanchezza, di dolore, di malattia, nelle camere a gas, fucilato, squartato. Ma non può permettersi di essere umano, un numero. Un numero non ci somiglia neanche, a un essere umano.

Poi una macchia scura all’orizzonte scombussola l’ordinario. Si avvicina sempre più. Un confuso silenzio. Da un’anima stanca e debole prorompe un urlo rauco: “Sono venuti a liberarci, siamo liberi, siamo liberi!”. Eccola, la speranza, una stilla di speranza in quella fiammata di morte.
Nel campo eravamo rimasti solo noi, i deboli, i malati. Gli altri se li sono portati via i nazisti. Probabilmente sono morti.
Le porte di Auschwitz si aprono, l’orrore si riversa nel mondo.
Come farete, ora, a guardarci negli occhi? Come pretendete di capire?
Siamo morti. Siamo morti perché eravamo ebrei. Eravamo innocenti, dottori, insegnanti, bambini, mogli, mariti, bibliotecari, umani, ma ebrei: la nostra unica colpa, la riposta sbagliata a una domanda ingiusta, ma dov’è, in fondo, la giustizia? Dov’è il bene? Cos’è il male?
Siamo sopravvissuti. Siamo sopravvissuti all’inferno. Come pensate che torneremo, ora, alla nostra vita di sempre? Non esiste più la nostra vita di sempre.
Arbeit Macht Frei.
Sono un numero. Sono solo. Non ho più nessuno. Sono tutti morti.
Sono tutti morti.

Dov’era il mondo, mentre milioni di ebrei venivano sterminati dalla follia? Dov’eravate, quando ci torturavano, quando ci squartavano, quando avremmo voluto solo vivere, quando avremmo voluto solo sentirci umani?
Un orrore commesso da un uomo, da una nazione, dall’umanità.
Un orrore che non può essere dimenticato, chi dimentica è complice. Un orrore che non possiamo permetterci di ripetere. “Vi comando queste parole, scolpitele nel vostro cuore”. Una richiesta, un dovere, un ordine impossibile da ignorare.

Almeno una volta all’anno, un giorno all’anno. Il 27 gennaio si ricorda. Il 27 gennaio si insegna. Un avvertimento al futuro. Parlate, informatevi, raccontate, leggete, descrivete, osservate, provate a mettervi nei loro panni e vivete con cuore puro e mente aperta. Vivete.

Nadiya Najim

In data 8 ottobre 2016 si è tenuto uno spettacolo teatrale per gli studenti dell'Istituto Beretta sulla violenza sulle donne, “Gelido prato”, finanziato dalla Civitas e messo in scena dall'associazione culturale Treatro – terrediconfine. Lo spettacolo era l'esito di un laboratorio della durata di quindici incontri, aperto a donne e uomini di maggiore età. Basato sul libro Ferite a morte di Serena Dandini, lo spettacolo ha toccato tutte le sfumature del tema “violenza sulle donne”, dalla violenza psicologica a quella fisica; un ammonimento rivolto soprattutto ai giovani, gli adulti di domani, un'esortazione – o meglio, la richiesta di aprire gli occhi su quella che è una realtà sempre attuale, una realtà che non sempre si ha il coraggio di rivelare, nonostante aleggi tra di noi come un fantasma letale, tra le mura di casa nostra e negli occhi vuoti di donne troppo spaventate per fidarsi della nostra società.

Uno spettacolo crudo e diretto, che rivela dati e avvenimenti reali con un sottile filo ironico necessario a far aprire gli occhi dallo sbigottimento e far correre brividi di inquietudine, ma con la leggerezza.

Lo spettacolo si apre con una sfilata di donne, tutte diverse fra loro tra età e aspetto fisico, intente a mostrare il loro lato migliore con sensualità e un po' di civetteria, sotto gli occhi scrutatori di due uomini che le valutano come merce in vendita. Una scena che descrive con tocco ironico come vengono viste le donne nella società odierna, giudicate superficialmente in base al loro aspetto fisico e alle loro capacità.

“Siamo donne. È il nostro destino. Non possiamo farci niente.” è il messaggio che emerge nelle scene successive. Senza lasciar il tempo allo spettatore di riprendere fiato vengono raccontati episodi di vergogna, dedizione, morte e amore da donne che non si capacitano della brutalità e della violenza degli uomini che hanno amato con passione e da cui sono state uccise. Padri, mariti, amanti, vicini di casa, tutti colpevoli di omicidio e omertà. Una rapida successione di parole e gesti che scombussolano e catturano lo sguardo dello spettatore, che diventa complice e partecipe.

Le donne non se lo aspettano. Forse se lo vanno a cercare, per come si vestono, per gli uomini che si trovano, perché non si ribellano. Non se lo aspettano, avviene tutto così all'improvviso, in un battito di ciglia, e l'uomo dolce e premuroso che le ha protette diventa l'incubo da cui fuggire. “Avevamo il mostro in casa e non ce ne siamo accorte!”. Decisioni sbagliate di uomini non del tutto consci delle loro azioni. Uomini che non sono né “buoni” né “cattivi”. Giusto, sbagliato, bene e male, sono solo preconcetti che illudono, ma non giustificano le nostre scelte, che spettano solamente a noi. Lacrime di rimorso versate sui corpi freddi di donne che hanno amato con dolcezza e fragilità, fredde confessioni di omicidio di uomini che con impassibilità hanno distrutto sogni e speranze. Le donne non se lo aspettano. Loro perdonano, si illudono, sperano. Sono disposte a sacrificare tutto per il loro uomo: la famiglia, gli amici, il lavoro, le passioni. Loro donano se stesse, chiedendo in cambio di essere amate. Tentano di mascherare la violenza, non si aspettano la morte. “Le donne sono forti, meno che con gli uomini.”

Ed è la loro dolce fragilità a raccontare le loro storie agghiaccianti, il loro amore e i loro sogni. E le loro parole arrivano a chi è disposto ad ascoltare con l'animo sensibile e il cuore aperto. “Fa che queste mie lacrime, questo pianto ti onori, questo vaso di latte, questa cesta di fiori, e il tuo corpo non sia, vivo o morto, che rose”.

La testimonianza di una delle attrici, Nadiya Najim:

Devastante. Sensuale. Forte. Bella. Agghiacciante. Dolce. Commovente.

Sono tanti gli aggettivi che potrei usare, ma questi sono quelli che meglio descrivono la mia esperienza di attrice nel “Gelido prato”, laboratorio teatrale sulla violenza sulle donne (seguito poi dall'esito che abbiamo replicato una decina di volte). Vivere questo progetto dall'interno è stato unico e indimenticabile, che ha lasciato un segno indelebile sulla mia formazione di giovane donna e attrice. Il nostro scopo era far aprire gli occhi a persone in grado di cambiare la nostra realtà, quella realtà che nasconde violenza fisica, sessuale e psicologica dietro a un sorriso rassicurante, occhi pieni di lacrime, fondotinta e cerotti. E quelle persone sono proprio i giovani. Non era necessario che capissero tutti: se anche un solo giovane avesse recepito il messaggio che volevamo trasmettere, ci saremmo sentiti soddisfatti, ma il risultato è stato di gran lunga meglio del previsto e noi non possiamo che gioirne. Avevamo l'arduo compito di raccontare storie di morte e violenza senza risultare vittime bisognose di aiuto e compassione; dovevamo parlare di ferite letali con leggerezza, dolcezza ed ironia, senza pressione, senza forzare. Dopotutto, è un argomento fragile, che ha bisogno di essere trattato con la dovuta delicatezza. E tra parole, poesie, danze, gesti, carezze, racconti, dati e petali di rose abbiamo raccontato di Marie, uccisa dal suo amante per gelosia; siamo state Teresa, che con la faccia viola di pugni raccontava sorridente di essere caduta dalle scale della cantinetta; eravamo Ivana, che attraverso la fredda confessione del suo fidanzato Giovanni ha espresso il suo disappunto per essere stata soffocata da un tovagliolo rosso a causa di una risposta non gradita; e in noi c'era quella giovane commessa di intimo strozzata con delle mutandine di pura seta perché le piaceva un po' di violenza a letto, le piaceva sentirsi un po' schiava e un po' geisha, ma il compagno non è riuscito a fermarsi; abbiamo parlato con la voce di Hamina, sgozzata dal padre perché voleva cambiare una storia già scritta e sposare un uomo diverso da quello a cui era destinata. Ma chi eravamo? Eravamo donne. Eravamo Vittoria, Elena, Alessia, Barbara, Nadia, Adriana, Rossana. Ognuna con le proprio passioni, con la propria vita e con i propri sogni, ma ci siamo prese il carico di denunciare una scomoda verità per un futuro meno inquietante. Per un mondo dove le donne possono vestirsi come piace a loro, senza esser poi incolpate di aver provocato il loro stupratore. Dove tutti possono dire la loro, senza aver paura di una risposta troppo violenta. Dove ognuno può essere se stesso senza essere giudicato. Un posto dove donne e uomini possono vivere sereni con i loro interessi, le loro passioni, i loro sogni e le loro ambizioni. Senza paura che l'amore della tua vita si riveli un mostro brutale e violento. E sarebbe più semplice se si potesse trovare il coraggio di denunciare una situazione di violenza senza avere il terrore di essere uccisi.

E se ognuno di noi si impegnasse a prendersi carico di questa cruda verità, forse questo non sarebbe più un mero sogno di poche persone fiduciose e speranzose, ma una realtà.

Il 13 maggio 2017 la 3A ITIS  per il secondo anno consecutivo ha avuto una docente d’eccezione a trattare il tema della ricostruzione dell’Europa a 60 anni dalla stipula dei Trattati di Roma. La signora Mariana Sanga Pedercini, mamma di un alunno della classe, ha tenuto una lezione sull’integrazione europea che ha visto protagonisti i Paesi dell’Est Europa, dopo il crollo dei regimi comunisti nel 1989. Lo scorso anno l’argomento trattato per la Giornata della Memoria era legato  ai caratteri del regime di Ceausescu e quest’anno Mariana ha trasmesso ai ragazzi le difficoltà  della Romania a rialzarsi dalla povertà  del  regime e le tappe che stanno permettendo una piena integrazione culturale. Storia certo, ma anche tanta poesia quella delle canzoni di Adrian Paunescu che  sono state lette prima in lingua rumena da un alunno madrelingua e poi in traduzione dagli altri studenti, condividendo così con un linguaggio a loro vicino un passaggio istituzionale e culturale che solo i versi di alcune canzoni sanno rendere appieno. 

Questa è  solo la seconda tappa di un connubio scuola – famiglia che vuole accompagnare gli studenti, in un progetto di  programmazione più  ampio, a vivere consapevolmente nel 2019 il trentennio della caduta dei regimi dittatoriali comunisti in Europa, a saper valutare criticamente la storia anche attraverso la micro storia e la voce dei protagonisti.

Poche cose son rimaste civili

in quest’epoca piovosa e militare

non giorni, ma permessi di giorni

sugli attenti i bimbi escon dalle mamme.

Le pendole suonano come stivali

cigolando su sabbia arida e scartata

e in un mese ci son trenta guerre

e tutte portan la morte sulle ali.

Fascino non lo ha più nemmeno la morte

in quest’epoca colma di soldati

sotto i tigli in fiore si sta  come sotto le armi

quando da stelle siamo mitragliati.                                                                                              

(Adrian Paunescu)

Tra Seconda Guerra mondiale ed esodo dalmata: memoria presente tra i nostri alunni. Quando la collaborazione scuola – famiglia fa lezione di Cittadinanza e memoria attiva

Mia Nonna è  nata il 27 marzo 1936 a Nimis (UD), un piccolo paese vicino al confine sloveno (Ex Jugoslavia).

L’apice della guerra arriva nel paese di mia nonna nel 1944. Dopo aver vissuto un periodo di difficoltà economiche dovute alla guerra stessa, scarsità di cibo, carenza di strutture pubbliche quali ospedali, scuole…  la guerra arriva in paese con l’occupazione da parte dei “cosacchi” per il controllo del territorio in sostituzione ai tedeschi.

Già  da due anni, una parte della popolazione italiana, iniziava ad organizzarsi diversamente da quella che era l’alleanza con la Germania. Con la formazione di bande partigiane vengono a formarsi le brigate Osoppo e Garibaldi, in queste organizzazioni si potevano arruolare uomini di tutte l’età, tra questi c’erano anche ragazzi molto giovani di 15 anni circa, come un cugino di mia nonna o come il papà  che aveva 44 anni.

I tedeschi, dopo i fatti dell’otto settembre, invadono l’Italia e per tenere il controllo di alcune zone del Friuli Venezia Giulia utilizzano i cosacchi. I tedeschi avevano promesso ai cosacchi che vincendo la guerra il Friuli sarebbe rimasta la loro terra in cui vivere. I cosacchi accettarono, in quanto essendo “zaristi” sarebbero stati eliminati dai russi se avessero fatto ritorno in patria e pertanto si erano rifugiati in Germania, la quale li aveva accolti e dato loro quest’ultimo compito di occupazione. I cosacchi avevano il compito di tenere il presidio nei paesi del Friuli ove erano presenti partigiani. Come ricorda mia nonna, i cosacchi vivevano in gruppi familiari e alloggiavano in carovane, erano mal armati dai tedeschi, con armi di scarto e spesso mal funzionanti, erano soliti saccheggiare le case per procurarsi cibo e quant’altro. Tra vari ricordi di mia nonna legati a quel periodo c’è  il posizionamento di un cannone di fronte a casa sua, utilizzato da dai mongoli, anche essi associati ai tedeschi, che sparava contro la Ex Jugoslavia di “Tito”. I bambini, compresa mia nonna, stavano a guardare la partenza delle cannonate fino a che i genitori non li richiamavano in casa. Un altro ricordo importante di mia nonna fu quando sua mamma e una zia mentre stendevano al sole la biancheria ed essendo la casa situata vicino ai boschi, i cosacchi pensarono che la stesura dei panni fosse segnalazioni ai partigiani. Per questo fatto furono messe alla fucilazioni, se non che un cosacco siccome più volte si era fatto fare da queste donne lavori di sartoria risparmiò loro la vita non facendole fucilare.

I partigiani vivevano tra i boschi, ed erano al corrente di come i cosacchi si comportavano in paese, di conseguenza decisero di unire le due fazioni (Garibaldi e Osoppo) per avere la forza militare di scacciarli. I partigiani riuscirono nell’impresa e i cosacchi furono costretti a scappare e abbandonare Nimis, Attimis e Faedis i tre paesi principali situati in confine con la Ex Jugoslavia e che per la loro vicinanza a colline e zone boschive favorivano lo stanziamento di partigiani in gran numero, perché qui riuscivano meglio a nascondersi. I tedeschi, molto ben organizzati militarmente, dopo avere inutilmente tentato di bloccare la ritirata dei cosacchi, immediatamente inviarono i rinforzi dal comando che era situato a Trieste. Nel giro di poco tempo arrivarono nei tre paesi. Evacuarono i paesi sopra citati, incolonnarono tutta la popolazione e all’uscita dei paesi furono selezionati i giovani, i maschi portati nei campi di concentramento, le donne nelle fabbriche tedesche per la costruzione di bombe, in quanto fabbriche pericolose utilizzavo i prigionieri. In un primo momento pensavano di deportare tutti in Germania nei campi di concentramento, in seguito decisero che la gente anziana e i giovanissimi, venissero liberati e detto loro di andarsene, allo stesso tempo vennero bruciati i paesi compresi stalle piene di animali e foraggi, dando la possibilità  alla gente di raccoglie oggetti personali che potessero essere trasportati autonomamente.

Nella deportazione in Germania nei campi di concentramento, mia nonna ricorda il proprio zio che morì poco dopo a “Dachau”. Una sola persona di Nimis si salvò dal campo di concentramento, si trattava di un giornalista che raccontò  poi in futuro queste vicissitudini. Durante il periodo nel quale i tedeschi erano stanziati nei tre paesi, la gente del posto come racconta mia nonna doveva andare in giro vagabondando per i paesi limitrofi, elemosinando e cercando alloggio e qualcosa da mangiare.

Di quel periodo mia nonna ricorda quando lei sola, in quanto le altre due sorelle erano ancora troppo piccole, e sua mamma, raggirarono il paese e i cosacchi presenti, per recarsi alla loro abitazione per vedere ciò che era rimasto dopo l’incendio. Trovarono la distruzione di tutte le abitazioni e vicino casa poterono vedere un cadavere semi sepolto di un omonimo del padre della famiglia in quanto era ricercato perché  faceva parte della brigata Osoppo. Il nonno fu in seguito preso in altri rastrellamenti, fu fatto prigioniero e messo alla fucilazione se non che un tedesco presente lo riconobbe come carceriere in un'altra occasione, e ricordando come fu trattato da prigioniere riuscì a liberarlo.

Questo stile di vita durò  all’incirca un anno, fino alla fine della guerra in aprile del 1945. Per quanto fosse finita la guerra i problemi nel Friuli non cessarono. La gente precedentemente evacuata iniziò il rientro nei paesi precedentemente bruciati. Iniziò la ricostruzione delle case civili. La Svizzera, in questa emergenza, fornì delle baracche per poter far vivere le persone il più  possibile vicino alle zone lavorative. I problemi rimasero per il confine con Tito, il quale, essendo vittorioso su di noi italiani, e avendo aiutato molto la zona del Friuli con i suoi partigiani per sconfiggere i tedeschi, pretendeva di portare il suo confine fino al fiume Tagliamento, ovvero gran parte del Friuli. Per quanto questo non accadde mai, la paura che accadesse in quegli anni era molta. Fin a che non si arrivò al 1954 con il trattato di “Osimo”, lo Stato per paura di dover concedere il territorio e le eventuali industrie, proibì lo sviluppo nel Friuli e così tolto case civili non si poteva costruire fabbriche per dar lavoro alla gente del posto. Molte persone non avendo lavoro furono costrette ad emigrare. Nella famiglia di mia nonna il primo ad emigrare fu il padre, dopo di che fecero lo stesso le tre figlie in ordine con il raggiungimento dei 18 anni, età  minima per essere accettati a lavorare in svizzera. Mia nonna e le due sue sorelle lavorarono in Svizzera in una fabbrica che produceva dei pezzi di automazione.

Per quanto le cose potessero andare bene la ricostruzione di questi tre paesi rasi al suolo dagli incendi fu fatta senza tener conto del fatto che si trovassero in zona sismica, e nel 1976 il Friuli fu duramente colpito dal terremoto e questi tre paesi furono nuovamente distrutti. Mia nonna si trovò  al di fuori di tutto ciò  perché da emigrata incontrò mio nonno, anche esso emigrato in svizzera per non dover lavorare in miniera. Nel corso degli anni si sposarono ed ebbero un figlio. Rientrarono in Italia visto che le prospettive di lavoro erano migliorate, intrapresero un’attività commerciale, gestirono una pensione a Collio Val Trompia paese di origine di mio nonno, zona che ai tempi era turistica per via del grosso successo di una stazione sciistica.

Edalini Marco 5B

GARDONE. Scelto il simbolo dello sportello antiviolenza: l'hanno disegnato i ragazzi del Beretta

VivaDonna, un logo da premio

La premiazione della classe quarta del Beretta di Gardone

logoVivaDonnaUna rosa in boccio sorretta da due mani aperte stilizzate che la sfiorano appena: è  questo il nuovo logo di VivaDonna, lo sportello antiviolenza di Civitas a Gardone. L'ha realizzato la quarta del corso di operatori meccanici dell'Ipsia Beretta, tutti maschi. I ragazzi hanno sorpreso la giuria con una proposta delicata, quasi romantica nella sua efficacia comunicativa, di valore estetico, essenziale per la facilità di riproduzione. È  stato scelto e premiato, come previsto dal bando lanciato dalla Comunità Montana, con 1.000 euro da destinare a visite di istruzione, e ha prevalso su cinque proposte che hanno coinvolto 75 studenti delle superiori valtrumpline, quattro presentate dalla Primo Levi di Sarezzo. Giorgio Rigosa, uno degli alunni presente per tutti con le docenti Sara Cavagna e Mariella Malice, ha voluto leggere una lettera ringraziando l'ente dell'occasione loro offerta, sottolineando l'entusiasmo suo e dei suoi compagni, spiegandone motivazioni e significato:«Pensiamo che il tema della violenza sulle donne sia in questo momento di primaria importanza. Ricordiamo che per i greci e i romani la rosa associata al mito di Adone e Afrodite era il simbolo dell'amore e delle rinascita che vince la morte».L'adozione del nuovo simbolo è  l'atto finale di un lavoro annuale di sensibilizzazione sul territorio programmato da Comunità  Montana e Civitas con le scuole e i carabinieri, presenti alla premiazione con il comandante di Gardone tenente Fabio Iapichino e della stazione di Nave maresciallo Stefano Villotta. Con loro Piera Stretti, presidente della Casa delle Donne di Brescia. Un lavoro destinato a proseguire.

Dal BresciaOggi di mercoledì 7 giugno 2017

chioccolamenteIl progetto di rete Chioccolamente, sponsorizzato dalla sezione provinciale FIDC di Brescia per gli istituti comprensivi di Marcheno e Orzinuovi e l’Istituto  superiore Carlo Beretta di Gardone V.T, ha  previsto un modulo semestrale didattico in aula per trattare l’evoluzione  dell’arte venatoria dalla Preistoria fino alle espressioni  artistiche e poetiche del 1900, un convegno in cui hanno partecipato enti del territorio e l’azienda armiera Bettinsoli e infine un week – end formativo di chioccolo in data 27 – 8 maggio 2017 per i 15 vincitori provinciali della selezione effettuata. I due giorni di didattica trasferita presso il rifugio alpino di Campei de Sima, situato al centro dell’Alto Parco del Garda, hanno permesso agli alunni di diverse scuole del territorio bresciano, guidati dalla prof.ssa Silvia Luscia, dal maestro Loris dal Maistro e dal responsabile per la didattica FIDC Romano Bregoli, di apprendere l’arte del chioccolo, studiare la conformazione e la nidificazione degli uccelli silvani quali il merlo, il sassello e il tordo bottaccio, nonché  vivere diversi setting naturali quali LA RISERVA DEL NOCE, LA GROTTA DI STALAGMITE DEL BUS DE LUF e IL FAGGETO SECOLARE, il tutto in un aperto clima di socializzazione. L’esperienza ha permesso  di conoscere i diversi ambienti naturali che costituiscono i boschi bresciani dalla flora alla fauna, senza tralasciare le coltivazioni di minerali che l’area offre. Il Corso di Chioccolo principe della formazione del progetto si è  concluso con una gara tra i corsisti in cui gli alunni Digiglio Andrea e Micheli Andrea della classe 3 A ITIS si sono classificati rispettivamente secondo e terzo.

Guarda il video del progetto e la fotogallery:

Progetto classi parallele 2A e 2C1 ITIS: i luoghi poetici del bresciano da Catullo a D'Annunzio per la valorizzazione del patrimonio archeologico e culturale locale. Clicca sull'immagine per vedere il video.

foto di gruppo